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Con "La donna che mangiava poesie" Zdravka Evtimova dimostra di sapersi muovere agilmente tra la lingua bulgara e quella inglese, evocando altri grandi scrittori dell'Est Europa quali Milan Kundera e Vladimir Nabokov, e regalando al pubblico una raccolta di racconti che ruota attorno alla magica e violenta città di Pernik. L'autrice dipinge una terra rurale e periferica, dove impera il giallo feroce dei campi, le nuvole sono isteriche e incostanti, soffocando sogni e speranze. La Bulgaria della Evtimova è una dimensione fatata e miserabile, dove le donne girano con i coltelli sotto le gonne per proteggersi dagli uomini rozzi e voraci e dai malefici delle passioni; i crepuscoli sono sanguinari, le notti scandite dall'acquavite scadente e dai versi di gufi e lupi. Tutto è vero, descritto nelle sfumature esistenziali più disgraziate, eppure il regno del fantastico sussurra a ogni pagina. In questi racconti brilla il realismo magico di Salman Rushdie e di Gabriel Garda Marquez, ma in chiave bulgara, con quel pizzico di ironia e sfrenatezza che contraddistingue le culture dell'Est Europa. La scrittura è potente, a volte scarna e ruvida, altre languida e sensuale, lirica. Alla fine di ogni racconto, è come se tra le mani restasse un po' di polvere e di poesia, una magia che corrode il corpo e il cuore.